Un tranquillo week end di paure
Riparte il campionato, ci sono le elezioni: per un appassionato di calcio e politica (in ordine alfabetico) è un fine settimana ad alta tensione. Lunedì sera oltre che per il risultato di Milan-Bologna il cuore batterà per le partite in Toscana, Marche e Puglia, dando per scontata la vittoria in casa campana e le sconfitte in trasferta ligure e veneta. Non temo scossoni con ricadute sul governo, ma la riapertura di pericolose manovre interne al PD, quello sì. Ci manca solo di rimetterci a discutere della leadership interna in un frangente decisivo per la ripartenza del Paese: finiremmo per assecondare le intenzioni di chi vuole liberarsi definitivamente di questo partito.
A complicare ulteriormente le cose poi ci si mette pure il referendum.
Meno lacerante, per me, rispetto al 2016 ma comunque fortemente divisivo anche all’interno di culture politiche comuni.
Come quasi sempre accade in queste occasioni le valutazioni sul merito del quesito si accompagnano a considerazioni sulle motivazioni sostenute dai promotori nonchè a riflessioni sulle possibili conseguenze politiche del voto.
Partiamo da queste ultime: mi pare indiscutibile che la vittoria del No sarebbe un colpo molto forte per questa maggioranza di governo i cui principali partiti si sono esplicitamente espressi per il Sì. Lo hanno ben capito molti leader del centro destra che stanno non a caso alimentando quel “No insincero” che stigmatizza Pierluigi Bersani, insieme ad un altro fronte di opposizione guidato da Repubblica e L’Espresso. Per i primi il No serve per sciogliere il Parlamento, per i secondi a sostituire Conte con un profilo tecnico cui affidare la cornucopia del Recovery fund. Comunque sia, per sostenere l’attuale maggioranza è utile un Sì.
Veniamo alle motivazioni: per i 5 stelle si tratta di tagliare le poltrone, per i sostenitori del NO di difendere la centralità delle Istituzioni. Messa così non c’è ovviamente discussione: ascoltare Di Maio induce a riempire di No le urne. Tuttavia, siamo proprio sicuri che bocciare una legge votata dal 90% del Parlamento sia il modo migliore per affermarne l’autorevolezza?
Infine (ma dovrebbe essere in primis) il merito. Meglio 1000 o 600 parlamentari? I ragionamenti vertono sull’efficienza e sulla rappresentanza (escludo il risibile tema del risparmio). Entrambi questi scopi però non dipendono (principalmente) dal numero. Si dovrebbe lavorare meglio in assemblee meno elefantiache, ma in realtà il vero efficientamento dipende di più dai regolamenti d’aula e dal superamento del bicameralismo paritario. Ricordo peraltro che un taglio consistente è stato fatto, nel silenzio generale, alle assemblee elettive comunali. Quando (ahimè quarant’anni fa) entrai per la prima volta nel consiglio comunale di Vimercate i consiglieri erano 30, oggi sono 16. Quanto alla rappresentanza anch’essa dipende più da come saranno riorganizzati i collegi e dalle modalità di selezione dei partiti. Che sia una riforma monca è quindi del tutto evidente: si tratta di scegliere se si ritiene preferibile fare un primo passo nella convinzione che esso agevoli e renda necessari i successivi ovvero tenere tutto fermo in attesa di una nuova futuribile occasione.
Mettendo un po' in ordine queste riflessioni alla fine, pur senza grande entusiasmo, ho maturato la decisione di seguire l’indicazione del mio partito e votare Sì. Col massimo rispetto per i sostenitori sinceri del No.
Buon voto (e buon campionato) a tutti.
Enrico Brambilla
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Carissimi, nei giorni scorsi sono tornate a riunirsi, per quanto ancora con modalità a distanza, le Direzioni Nazionale e Regionale del PD.
Mi fa piacere quindi condividere il testo del mio intervento nella seduta di lunedi 8 giugno della Direzione Lombarda, alla presenza del vice segretario nazionale Andrea Orlando.
Se qualcuno vorrà discuterne, sono a disposizione.
Buona ripresa a tutti
Stiamo attraversando una fase inedita piena di insidie ma altrettanto ricca di potenzialità, nella quale il partito lombardo, così come quello nazionale, si gioca una parte importante del proprio destino.
Riepilogo per punti ed in maniera molto stringata quelli che sono, a mio avviso, i tratti distintivi, di questa fase.
- La Lombardia è stata ed è tuttora l’epicentro dell’emergenza sanitaria. I dati di questi giorni, per quanto in evidente miglioramento, inducono ancora ad avere molta attenzione. Nessun allarmismo ma nemmeno nessuna rimozione. Il viceministro Sileri oggi dice che non esiste alcun “caso Lombardia”: io penso invece che abbia fatto bene Andrea Orlando a chiedere al ministro Speranza di venire in questa Regione, non per commissariarla ma per far capire che senza una vera e leale collaborazione tra istituzioni non se ne esce, smontando così anche le velleità iperautonomiste della maggioranza regionale e ponendo e basi per un auspicato superamento dell’attuale sperimentazione.
- L’emergenza sanitaria ha messo a nudo le debolezze politiche e di modello di questa Regione, che noi dobbiamo giustamente continuare ad evidenziare. Al tempo stesso però è emersa ancora una volta la straordinaria ricchezza di questa regione, fatta di professionalità, umanità, volontà di migliaia di professionisti della sanità, lavoratori, associazioni. Tenere insieme questi due racconti, ed offrire una sponda di riconoscimento a questo pezzo di Lombardia è per noi essenziale se ambiamo ad un ruolo che non sia di eterna opposizione.
- Ora siamo alle prese con l’emergenza economica: attenzione, se per la parte sanitaria possiamo far ricadere buona parte delle responsabilità ed inefficienze sulla guida regionale, il peso della crisi economica e sociale è tutto sulle nostre spalle. Ha ragione Zingaretti nel rimandare al mittente, come ha fatto oggi in Direzione Nazionale, le accuse e le semplificazioni della destra. Tuttavia non possiamo sfuggire alle attese delle persone. Le misure sin qui messe in campo stanno servendo a garantire la respirazione al nostro polmone produttivo in affanno, ma ora anche qui serve il vaccino. In queste prime settimane di ripresa predomina ancora nel mondo produttivo un senso diffuso di incertezza, l’incapacità di programmare oltre il breve periodo, di orientare progetti ed investimenti. Non ci salveremo coi plexiglass né coi monopattini, né rilanciando consumi o filiere più funzionali alle importazioni di tecnologie straniere che al mercato interno.Il vaccino non è la moneta ma la politica economica.
- Eppure in Lombardia abbiamo settori cruciali, dall’aeronautica alla farmaceutica dal tessile all’alimentare (siamo la prima regione agricola) ed un tessuto straordinario di piccole e medie imprese. Attenzione anche ad una illusione ottica: il vaccino non è la liquidità di cui tanto si parla ma che, anche grazie all’ottimo lavoro svolto da noi in europa non è mai stata così disponibile.Il rischio è la cattiva allocazione della tanta liquidità esistente, la troppa liquidità improduttiva.
- Milano è a sua volta epicentro di questo tsunami, per la sua stessa natura di metropoli, per le reti lunghe che ne hanno caratterizzato lo sviluppo, per gli impatti della mobilità o dello smart working che mette in ginocchio interi distretti del terziario. Questa considerazione mi fa dire che su Milano occorra un ragionamento specifico come per le altre piattaforme lombarde evitando di uniformare forzosamente realtà molto diverse. Siamo però consapevoli che a Milano si gioca nei prossimi mesi una competizione decisiva. Il partito milanese ha tutte le forze e le capacità per continuare a fare un buon lavoro, quello lombardo lo può e deve affiancare sapendo che la Lombardia non si riduce a Milano ma che senza Milano sarebbe per noi tutto più difficile.
- Il centrodestra lombardo ha dimostrato tutta la sua inconsistenza ed incapacità. Una prima conseguenza è quanto rilevato ieri dall’editoriale del Foglio: il centro di gravità politica italiana non è mai stato così vicino a Roma e così lontano da Milano. Non si tratta qui di fare astratte rivendicazioni di campanile, ma di comprendere il rischio che questo deficit di rappresentanza venga colmato da altri, e segnatamente dal nuovo presidente di Confindustria portatore di una visione aggressiva e neorestauratrice dei rapporti sociali. Significativo quanto avvenuto di recente con la vicenda Irap, che ha visto prevalere il pressing confindustriale per una misura che ha assorbito risorse importanti con discutibile efficacia ed equità, senza peraltro averne in cambio neppure un armistizio. In compenso milioni di cittadini e piccoli operatori hanno immutate le scadenze e gli importi per l’Imu (16 giugno) o per l’Irpef a fine mese, con prevedibile crescita del malcontento.
Per concludere, sulla base di queste schematiche riflessioni, ritengo ci sia un lavoro profondo per noi da compiere in una regione disorientata alla quale offrire una seria prospettiva di futuro.
Senza spocchia, studiandone a fondo ancor più di quanto abbiamo fatto nel passato la composizione sociale, del lavoro, della produzione.
Ed aprendo poi una relazione utile col partito nazionale e col governo per accorciare il più possibile la distanza tra gli sforzi messi in campo ed il loro approdo sul territorio. Per questo è importante la presenza con noi qui oggi di Andrea Orlando che ringrazio anche per aver saputo in questo periodo rimettere al centro della discussione temi essenziali per l’identità del PD e della sinistra.
Enrico Brambilla
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Oltre le paure
La Grande Paura è passata. Non quella del coronavirus che sta mettendo a nudo le fragilità della potenza cinese e del mondo globalizzato (uno starnuto a Wuhan può provocare ripercussioni in ogni angolo della terra). Mi riferisco alla ben più circoscritta paura elettorale con epicentro Bologna. I bacilli che avrebbero potuto infettare Roma e l’intera nazione sono stati debellati da Stefano Bonaccini e dalle squadre di soccorso che attorno a lui si sono organizzate, sardine comprese.
La povera Calabria non interessa a nessuno: lì la sconfitta era annunciata, nella tradizione di pendolarismo che contraddistingue quel voto regionale (l’uscente è sempre perdente).
Il successo non deve illudere il centrosinistra: si continua a faticare tra i ceti più popolari e nelle aree interne, cioè tra quei penultimi (gli ultimi, generalmente extracomunitari, non votano) che vorrebbe (dovrebbe) maggiormente rappresentare e difendere.
La cura non è semplice, perché in quei settori è attecchito il vero grande virus che minaccia l’occidente e contro il quale ancora non sono stati scoperti vaccini: quello della paura. È un virus che non va negato o rimosso, né ovviamente alimentato. Bisogna saperlo curare. Per ora abbiamo abbassato la febbre, e questo già ci fa star meglio. Il lavoro che ci attende è impegnativo, e bene ha fatto Zingaretti a non perdere tempo e convocare un congresso sulle idee.
Intanto assistiamo allo sgretolamento dei cinquestelle: anche i più ostinati detrattori di questa alleanza di governo dovrebbero riconoscerne gli effetti positivi sul “ritorno a casa” di buona parte del consenso che ci avevano sottratto. Salvini a sua volta ha perso l’aura del capitano infallibile, la sua leadership all’interno del centrodestra (che rimane una coalizione molto forte) non è più così sicura. Infine la corsa al centro, in un quadro che tende nuovamente a bipolarizzarsi, non sembra essere così attrattiva.
Il PD, insomma, è nelle condizioni migliori per tornare a crescere. E, soprattutto, per cercare di far crescere il Paese.
Futuro Artigiano
Dai primi di gennaio ho assunto il ruolo di Segretario generale di Confartigianato Milano Monza e Brianza. È l’associazione cui sono legato da un’intera vita lavorativa e nella quale ho sin qui ricoperto funzioni di natura tecnico-professionale. Ora mi trovo a doverne organizzare anche la rappresentanza e sostenerne l’attività a favore delle piccole imprese che vi aderiscono. Sono fermamente convinto che si tratti di un settore fondamentale non solo sul piano economico ma anche della tenuta sociale dei nostri territori. Nei laboratori artigiani si fa quotidianamente molta più ricerca ed innovazione di quanto si pensi, si tramandano saperi, si assicurano servizi. La produzione “taylor made” supera il taylorismo della produzione seriale affermandosi come quella che meglio può garantire la sostenibilità ambientale. Anche questo, naturalmente, è un mondo in cui le trasformazioni e la globalizzazione inoculano paure e tensioni. Occorre che qualcuno se ne prenda cura e lo accompagni. Questo è il ruolo delle associazioni di categoria (come del sindacato per i lavoratori dipendenti). In tempi recenti c’è chi ha teorizzato la disintermediazione e, di conseguenza, la loro inutilità. Il risultato è stato il trionfo del populismo. Spero che la lezione sia servita.
Appuntamenti
Segnalo due belle occasioni per ragionare di futuro. Entrambe a Vimercate nella Sala Don Moioli della Libreria Il Gabbiano.
Giovedi 13 alle 21: Cambiamento climatico, economia, sostenibilità con Claudio Cassardo (Università Torino), Bonafè, Rampi, Torri, Brizzolara, Crippa. Organizza il PD cittadino.
Sabato 15 alle 17: presentazione del nuovo libro di Valeria Termini (ordinario di economia politica a Roma Tre) “Il mondo rinnovabile”. Il giorno prima lo stesso libro è presentato a Roma presso l’Istituto della Enciclopedia Treccani da Giuliano Amato, Enrico Giovannini e Paolo Mieli. A Vimercate toccherà a me l’impresa: roba minima (cit. Jannacci).
La nuda vita, capace di svelare di quale comunità abbiamo bisogno
Aldo Bonomi, 04.04.2020
Salti d'epoca. Covid 19 ha riportato il rappresentare all’essenziale: il sindacato a difendere corpo e salute, artigiani e commercianti nel deserto del capitalismo molecolare hanno riscoperto il senso del rappresentare. Per non parlare dei senza rappresentanza, dalle partite Iva per scendere al lavoro sommerso, agli immigrati, ai poveri, ai carcerati Quante volte, scavallando il secolo, ci siamo detti “nulla sarà più come prima”. Nel fine secolo con la fine del fordismo, la caduta del muro ed il riapparire nella ex Yugoslavia della comunità maledetta del sangue, del suolo nell’Europa senza più senso del tragico. Con l’avanzare delle “guerre giuste”, poi “guerre per la democrazia” dopo l’11.09, sino all’oggi delle “guerre a pezzi” continuate. Nel 2008 il crollo di Lehman Brothers data una crisi infinita nelle lunghe derive del turbo capitalismo finanziario. Balzi d’epoca ove ha sobbalzato la nostra capacità di continuare a cercare per continuare a capire nell’apocalisse culturale del non riconoscersi più in ciò che ci era abituale. Oggi il salto d’epoca di covid 19, per riprendere De Martino, evoca la “Fine del Mondo” da leggere, non solo per speranza, come fine di UN mondo. Mi dico, gramscianamente, che ad ogni perturbamento d’epoca, per capire cosa “non era più” e cosa avanzava nel “non ancora”, ho cercato di rispondere facendo conricerca, come mi hanno insegnato i maestri Alquati e De Rita. Fare conricerca e ricerca azione con gli orfani del fordismo e del sistema ordinatorio fatto di classi e conflitto, ai bordi del vulcano della company town con il torinese Revelli, per poi camminare nel postfordismo del capitalismo molecolare della fabbrica diffusa e delle nascenti partite Iva con Sergio Bologna e nei territori del margine come luoghi di nuove pratiche di democrazia dal basso con Alberto Magnaghi, fu un andare oltre il nulla sarà più come prima. Ci mettemmo in mezzo e dentro la moltitudine delle masse senza più la barra della lotta di classe per orientarci. Da qui il tornare all’essenziale dell’“essere in comune”, della voglia di comunità di Bauman, di cui ricordo una conversazione sul Manifesto con il compianto Benedetto Vecchi, perché, come ci ricorda Augé, “un individuo totalmente solo è inimmaginabile cosi come è insostenibile un futuro senza avvenire”. Covid 19 pare sbatterci in faccia un futuro senza avvenire con la contraddizione tra una solitudine da Immunitas e la voglia di comunità per mangiare futuro da Communitas. Ne avevamo ragionato con Roberto Esposito, avendo chiaro che la “voglia di comunità“ non è buona in sé. Da qui il nostro teorizzare la comunità di cura e la comunità operosa come alternativa possibile. Ed anche oggi, nel labirinto della paura della pandemia, non saprei evocare che queste due polarità per ritrovare il filo di Arianna. Per non passare per inguaribile buonista, preciso che oltre all’angoscia della solitudine, ci salverà l’interesse a metterci in comune. Non è stato forse così, nella pandemia, il riscoprire la comunità stretta della cura di infermieri e medici, a cui ci siamo affidati? Per poi accorgerci di quella comunità di cura larga che va dai contadini agli operai, ai bottegai, alle cassiere nei supermercati, ai camionisti che ci hanno garantito luce, calore, cibo a domicilio tutti lavoratori dell’ultimo miglio che ci erano invisibili. Ma la comunità di cura larga non è “solo” questo. Mettersi in comune per interessi porta a riscoprire quello che l’arroganza della disintermediazione e la teorizzazione dell‘uno vale uno aveva cercato di cancellare: le forme e la cultura della rappresentanza, le forze sociali, la società di mezzo. La comunità di cura larga evoca pratiche che rimandano al vuoto della rappresentanza piegata come legno storto nella rappresentazione da società dello spettacolo che aveva trasformato la dialettica sociale in rituale stantio da fabbrica di tavoli. Covid 19 ha riportato il rappresentare all’essenziale: il sindacato a difendere corpo e salute, artigiani e commercianti nel deserto del capitalismo molecolare hanno riscoperto il senso del rappresentare. Per non parlare dei senza rappresentanza, dalle partite Iva per scendere al lavoro sommerso, agli immigrati, ai poveri, ai carcerati, cui rimane la pietas di pochi politici e le parole interroganti del Papa. Parole che ci interrogano intalpati nelle nostre case, dove si riscopre il piacere del fare il pane, mentre in basso manca il pane, ed in mezzo c’è la panificazione per i supermercati, che speriamo non diventino i forni di manzoniana memoria. Dentro la moltitudine avevamo visto la faglia tra nuda vita e vita nuda. Definivo la prima il nostro essere dentro la società automatica dei big data al lavoro con il nostro sentire, pensare e comunicare. Ci eravamo dimenticati, con delega al volontariato e alle Caritas, della vita nuda che mangia, si copre ed abita. Qui siamo e qui occorre rimettersi in mezzo, rifare comunità di cura larga, rifare società di mezzo nel salto d’epoca da una società del ‘900 dai mezzi scarsi con fini certi ad una società con mezzi sempre più potenti, ma con fini totalmente incerti, che oggi scopre l’incertezza dei mezzi per immunizzarci dal coronavirus. Sento un rullar di tamburi da futurologi, già sentito ai tempi della new economy, che esalta il nostro smart working come destino. Non tiene conto del destino dei tanti lavoratori autonomi di seconda e terza generazione terziaria apolidi dentro e per la rete, che si ritrovano oggi assistiti con 600 euro. Chi negozia e chi rappresenta chi nel capitalismo della RETE? Chi determina algoritmi, informazioni, saperi e tecnica nella società automatica? Auspico e sostengo da tempo una rinascita sindacale che si metta in mezzo tra nuda vita e vita nuda negoziando in alto con il capitalismo della rete ed in orizzontale facendo sindacato di comunità. Così come per il capitalismo delle RETI, quelle hard della logistica, fondamentale per muovere le merci dentro e fuori imprese 4.0, moltitudine di lavoratori dell’ultimo miglio con camion e camioncini, sino ai fantasmi in bicicletta che portano i nostri cibi caldi. In mezzo rimane il capitalismo manifatturiero in metamorfosi da innovazione, dove la crisi ecologica aveva già posto il nodo di un umanesimo industriale (parola grossa!) per una green economy come capitalismo che incorpora il concetto del limite. Ho sempre scritto che non si dà green economy senza una green society che la impone. Non esistono capitalismi che cambiano senza un po’ di conflitti e senza rovesciare almeno concettualmente il termine capitalismo in capitale sociale e, come ci hanno insegnato Sebregondi a Napoleoni, senza mettere in mezzo tra economia e politica la società. Per il nostro interesse è fondamentale che la comunità di cura larga recuperi uno spirito militante di stimolo al cambiamento della comunità operosa in divenire, ponendo cosi la questione essenziale di come passare dalla fine di un mondo ad un altro mondo possibile. Ce la faremo quando, riprendendoci per mano, capiremo che non è solo questione di economie di lavori, di interessi ma, come mi hanno insegnato Borgna e Beck, è un riconoscersi nella comunità di destino esistenziale.
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IL TAGLIO DELLE POLTRONE
L’aspetto più negativo, a mio avviso, della legge con cui è stato ridotto il numero dei parlamentari è la sua “narrazione”. Il solo motivo che ne avrebbe potuto motivare l’opportunità, cioè il rendere più efficienti i lavori delle Camere, non è stato per nulla considerato. Forse lo sarà attraverso la riforma dei regolamenti parlamentari, certamente non con la differenziazione delle funzioni nè col superamento del bicameralismo perfetto. Tutto è stato ridotto alla mera ragione economica: un risparmio poco più che simbolico facilmente ottenibile in altro modo. Ma il punto è proprio questo: ai 5 stelle importava il simbolo, tanto da averlo preteso quale precondizione dell’accordo di governo. E l’equazione seggio parlamentare = poltrona è simbolo manifesto di cultura antiparlamentare, populista, in sintesi antidemocratica. Purtroppo questa è la cultura di fondo ancora prevalente tra i pentastellati: spero che il mio partito dopo aver dovuto bere l’amaro calice ora sappia arginare nuove derive.
TATTICA E STRATEGIA
Si è riaperta in questi ultimi giorni la discussione sulla natura del rapporto coi 5 Stelle: tattico o strategico? Messa così è questione un po' oziosa e tardiva. Credo sia chiara la mia forte diffidenza nei confronti degli attuali alleati di governo, tuttavia la strada intrapresa mi pare tracciata e deve essere percorsa con coerenza. Il che non significa che sia una via spianata nè che sia irreversibile. In sostanza: aver scelto di dar vita a questa maggioranza ci impone ora di misurarci coi grillini non solo sui singoli provvedimenti, ma sull’idea di Paese che con l’azione di governo si intende promuovere. O si riesce a definirne una, reciprocamente riconosciuta e resa chiara ai cittadini, oppure prevarrà la convinzione che si sia trattato di un’operazione di palazzo e ne pagheremo profumatamente le conseguenze. Le distanze sono ancora ampie e non è detto si riesca ad accorciarle. Occorre però provarci pur senza inutili accelerazioni e forzature. L’alleanza, se verrà, sarà la conseguenza di un duro lavoro politico.
LO STATUTO
La Direzione Nazionale di oggi ha preso atto del lavoro di riforma dello Statuto ad opera della commissione presieduta da Maurizio Martina. A metà novembre l’assemblea di Bologna dovrebbe dare il via libera alle modifiche. Cambiano le modalità dei congressi, rimangono le primarie per il segretario nazionale ma introducendo il preventivo confronto su tesi, si apre al mondo digitale per rafforzare la partecipazione, si rafforza l’idea di partito federale. Mi paiono tutte cose di buon senso ed utili. Temo però non siano sufficienti a rivitalizzare un partito allo stremo. Questi pochi mesi di lavoro nella commissione di garanzia mi hanno fatto conoscere ancor più da vicino situazioni peraltro immaginabili. Praticamente non c’è regione del sud che non sia commissariata, altrove non è detto si stia meglio: il ripristino e rispetto delle regole è una precondizione necessaria ma non sufficiente. Abbiamo un grande bisogno di ridare senso al nostro agire politico. Per questo quindi la novità più importante ed attesa è la costituzione di una Fondazione di cultura politica che affianchi l’attività del partito. Nel sistema politico tedesco le fondazioni hanno un ruolo centrale nella formazione delle nuove leve. Da noi sinora sono state sempre viste con (talvolta giustificato) sospetto. È il caso di riaprire una discussione.
ADDIO A FILIPPO
Filippo Penati è stato un bravo politico, eccellente amministratore, un uomo con la schiena dritta. Ho vissuto da vicino molti suoi momenti: collega sindaco (lui a Sesto, io a Vimercate), Presidente di quella che ancora era la nostra provincia, collega in consiglio regionale. Spiace che molte pagine a lui dedicate in questi giorni si siano profuse più sulle vicende giudiziarie che sul merito della visione politica. Talvolta discutibile, ma sempre lucida ed argomentata. E sempre pronto a metterci la faccia, come quando si rese disponibile a sfidare Formigoni nel 2010 dopo che tutti gli altri candidati si erano sfilati. Percorremmo insieme migliaia di chilometri con la sua auto mal ridotta e pochi soldi a disposizione. Perchè Filippo alla politica ha dato molto più di quanto abbia ricevuto, tornando infine al suo mestiere di insegnante, senza astio. Da uomo perbene.